Un’ombra sul pavimento, eco di un’ombra interiore ben più cupa. Un uomo in bilico su una sedi, prigioniero di un vuoto esistenziale che lo assale da anni. Otto anni di silenziosa lotta contro un’angoscia intollerabile, celata dietro una maschera di sorrisi. Quella sera, la disperata decisione di liberarsi, nell’unico modo che la sua mente tormentata concepisce.

Da uno spiraglio della porta, aperta per tre quarti, si intravedeva un’ombra, si perdeva nel pavimento in graniglia della cucina: in quelle piastrelle dal colore indefinibile che si usavano un tempo.
In piedi, sulla sedia in formica e metallo, un uomo.
Il tubo catodico del televisore, unica fonte luminosa nella stanza, lo rischiarava, proiettando ad intermittenza l’ombra sul quel brutto pavimento.
Era un giorno qualsiasi, di un mese qualsiasi, di un anno qualsiasi.
Alla tv quella sera davano la prima puntata del Drive-in.
Ancora ragazzo, sì! Era ancora un ragazzo quando lo assalì per la prima volta l’ombra: quella insoddisfazione, quel vuoto, nero, mero, assurdo… e a diciassette anni non è giusto, no! Non è proprio giusto.
Un bambino apparentemente felice, cresciuto nell’amore dei suoi, e con gli amici del cuore a far scorribanda al fiume e nei boschi vicino a casa.
Un adolescente alfa, seguito dai maschi e ricercato tra le femmine.
I primi Levi’s, la Lacoste, il Moncler e le College, quelle con la monetina. Poi la prima moto: la vespa primavera 125 con il sellino Gaman, il marmittino cromato e la scritta “American graffiti” appiccicata sulla carrozzeria.
Tutto iniziò a casa della zia. Si portava dietro l’immagine di quel momento, come una fotografia strappata dall’album dei ricordi; che tirava fuori quando scivolava nel buco, e la guardava. Si scrutava, e non capiva come fosse possibile che accadesse così, da un momento all’altro, senza preavviso: come quando arriva la morte.
Pietro, un signore oltre la cinquantina, corpulento e con un simpatico accento marchigiano, faceva l’agente di commercio. Sposato e senza figli, conduceva una vita tranquilla e con poche noie.
Quella sera come tutti i venerdì, imboccò il gran raccordo anulare, era diretto alla Cassia, a casa del responsabile di zona, avrebbero dovuto visionare i nuovi prodotti e pianificare gli appuntamenti per la settimana.
Si trovava volentieri con Alfio a casa sua. Il suo capo; single incallito, un giovane sui venticinque, viveva dove aveva l’ufficio, un loft ristrutturato a dovere. Era conosciuto nella Roma bene soprattutto dal mondo femminile. Un bel tipo, occhi azzurri, fisico asciutto e muscoloso, capelli biondi, sempre abbronzato e sorridente.
Anche se erano appuntamenti di lavoro, il tempo trascorreva lieto, e tra una bevuta ed una chiacchiera divennero più che semplici colleghi.
Nonostante ci fosse una notevole differenza di età fra di loro, era nata una buona intesa; d’altronde con Alfio non era difficile andare d’accordo. Figlio di un socio dell’azienda che rappresentavano, sembrava che il padre gli avesse affibbiato l’incarico per toglierlo dalla strada e dalla droga.
Adesso però era pulito, ne era uscito grazie alla sorella di sua madre: una gran donna.
Le date dei prossimi ritiri
Alfio era molto legato alla zia che fin da piccolino frequentava assiduamente.
Moglie di un musicista Jazz abbastanza famoso, Giuliana non aveva mai lavorato. Trascorreva il suo tempo facendo volontariato, la gattara, la casalinga e occupandosi del suo unico nipote. Una donna affascinante, rossa di capelli, carnagione chiara.
Si diceva che in passato, prima di conoscere il jazzista, infranse molti cuori.
Il marito non voleva figli e lei ne aveva accettato il desiderio, a malincuore però, e col tempo la decisione inficiò il rapporto tra di loro, ma questa è un’altra storia.
Era ancora un ragazzo, uno studente, quando conobbe lei. La sua ombra, che lo attanagliò per la prima volta a casa degli zii al Pigneto.
«Tutto bene Alfio?».
«Sì zia, mi rilasso un poco sul divano, prima di tornare a lezione».
Due pomeriggi alla settimana aveva un rientro pomeridiano a scuola; per non tornare a casa, che era dall’altra parte di Roma, e per non rimpinzarsi in fretta in qualche fast-food, andava a trovare i suoi zii. Mangiavano un boccone insieme e parlavano di tutto; Alfio era un curiosone, ascoltava con interesse ed interveniva nelle discussioni dicendo la sua. Quel giorno però era stranamente taciturno e dopo pranzo si sdraiò sul divano, cosa che non era solito fare.
La zia ci aveva azzeccato; quel fatidico pomeriggio si era strappato qualcosa dentro ad Alfio, ma lui non ne volle parlare. Non avrebbe saputo neanche cosa dire e come spiegare quello che gli stava accadendo.
Pietro, terribilmente in ritardo, stava provando a telefonare ad Alfio per comunicare che avrebbe tardato di una mezz’ora.
Niente da fare, aveva provato e riprovato, ma il telefono era sempre occupato.
“Mah! Strano che abbia staccato il telefono”, pensò, poi si disse che magari l’apparecchio era guasto.
Ma sì, d’altronde in quella caotica città si sapeva che rispettare gli appuntamenti era quasi impossibile. E poi lui arrivava dal Casilino, proprio dall’altra parte di Roma; il suo collega avrebbe capito.
Per Alfio quello era un giorno speciale, finalmente aveva deciso di fregare quell’oscura signora che ultimamente veniva sovente a tormentarlo. Gli si era presentata senza invito otto anni or sono, e per tutto questo tempo fu una amara convivenza.
Il loro era un rapporto segreto; lui non voleva mostrarlo ai suoi cari, se ne vergognava. Indossò per tutti quegli anni una maschera di sorrisi e falsa gioia, di “tutto bene!” Scandito con toni forzati.
Quella sera si dimenticò di Pietro; era euforico, ora sapeva quale era il gesto da compiere.
Staccò telefono e citofono; niente e nessuno poteva disturbare il suo intento.
«Porca puttana, possibile che in questa città di merda si passi più tempo in coda che altro?»
Pietro imprecava insieme ad almeno un altro migliaio di poveri cristi chiusi nelle loro scatole di latta; sul grande raccordo anulare quella sera si procedeva a passo di lumaca.
“Altro che mezz’ora di ritardo” pensò; e si accese una Camel.
“Cazzo! Ad Urbino era un altro vivere.”
Erano passati ormai venticinque anni da quando la lasciò; la culla del rinascimento, la città dell’arte e della sua infanzia. Andò via a malincuore quando sposò Ivana che conobbe un pomeriggio di giugno.
Quel giorno con Guido e Marco, gli storici compagni di mille battaglie amorose, abbordarono un gruppo di ragazze in gita scolastica. Fra le ragazze una in particolare colpì Pietro, e fra i due fu subito amore.
Alfio si era procurato una corda abbastanza robusta da sorreggere il suo peso; aveva anche imparato ad eseguire il nodo scorsoio. Della lettera non gli fregava niente; nessuno avrebbe conosciuto il motivo del suo gesto. Sarebbero caduti tutti dalle nuvole, ognuno chiedendosi il perché.
Forse era malato terminale? Si era rovinato al gioco? O per una donna? I suoi amici di infanzia non se ne sarebbero fatta una ragione, avrebbero detto:
«Non gli mancava niente, la vita gli ha dato tutto, era sempre allegro e sorridente, amato da tutti, ambito dalle donne più belle… ma perché questo insano gesto?».
Lentamente l’uscita per la Cassia si avvicinava. Pietro ormai si era rassegnato: sicuramente Alfio avrebbe capito. Non l’aveva mai visto incazzato, sembrava gli andasse sempre tutto bene, era perennemente gentile e solare.
Finalmente tra un pensiero e l’altro riuscì ad imboccare l’uscita; ora in dieci minuti sarebbe arrivato a destinazione. Anche la sua Volvo, la mitica station wagon 240 GLE nuova di pacca, si era scocciata di respirare gli scappamenti delle sue cugine gommate. Stranamente riuscì a parcheggiare vicino a casa di Alfio; un centinaio di passi e la via crucis sarebbe terminata.
Alfio, con il nodo al collo era pronto per prendere il largo; ancora pochi istanti e avrebbe compreso il senso della sua esistenza. Il perché d’un tratto senza preavviso era sprofondato nel baratro dal quale non era più riuscito ad emergere.
Lui ci provò, a modo, suo tentò di alleviare il dolore e l’angoscia facendosi con ogni genere di droghe, ma nemmeno queste riuscirono ad illuminare il pozzo nel quale finì. Anzi, la loro ripetuta assunzione non solo amplificò il suo malessere, ma generò in lui dipendenza. L’unico modo che aveva per sopravvivere era fingere con tutti, compreso sé stesso, di stare bene, e continuare ad indossare la maschera. Quella stessa maschera che ora aveva riposto sopra la credenza e lo guardava con aria sorniona mentre lui si stava impiccando.
Pietro davanti alla casa rimase immobile per qualche istante senza capire, era tutto spento, aveva suonato e risuonato; niente.
Possibile che fosse uscito? Va bene che lui aveva ritardato, ma Alfio non era il tipo che si rompeva i coglioni; sicuramente lo avrebbe aspettato.
Magari il campanello è guasto, oppure è mancata la corrente”, pensò.
“Sì, è probabile, d’altronde è tutto buio!” Decise di recarsi al bar all’angolo e telefonare a casa. Di sicuro Alfio aveva chiamato per sincerarsi che non fosse accaduto nulla, e magari aveva lasciato un messaggio per lui ad Ivana.
Mentre si dirigeva verso il bar, scorse dietro al basso fabbricato un bagliore, un guizzo di luce proveniente dalla cucina di Alfio. Pietro si fermò.
Alla televisione Ezio Greggio, insieme a Gianfranco D’Angelo, era intento in uno dei loro esilaranti sketch. Era la prima volta che si vedevano cose del genere in tv: un tipo di comicità nuova, irriverente, satirica e demenziale, il tutto nello stesso contenitore.
«Pippo pippo pippo pippo».
«Vedo che oggi si presenta con un ponte. Il ponte piace molto agli italiani, soprattutto ai dentisti», disse Greggio al Tenerone.
«No, questo è il modellino del ponte sullo stretto di Messina, che piace molto ai nostri politici. Costa poco: quattromila miliardi», rispose D’Angelo dentro al suo costume rosa.
«Mi scusi, ma mi sembra un po’ eccessivo». «No, veramente costerebbe solamente mille miliardi».
«E gli altri tre miliardi?».
«Pappa pappa pappa pappa».
Alfio diede un colpo, sbilanciò la sedia e cadde nel vuoto.
Pietro aveva le chiavi del magazzino ricavato nel seminterrato: entrò e qualcosa non gli quadrava. Salì la scala che portava di sopra, all’appartamento di Alfio. La porta non era chiusa a chiave. Entrò nel salone e, in fondo, dalla porta della cucina semiaperta proveniva la luce del televisore. La voce di un personaggio diceva:
«Pappa pappa pappa…». Sentì una sedia cadere e vide un’ombra proiettata sul pavimento che penzolava.
«No! Alfio, no! Che cazzo fai?».
Alfio, l’appeso, percepì la vita che gli stava uscendo dagli occhi. Dicono che, quando si sta per morire, si rivive in un microsecondo la propria esistenza dalla nascita fino a un attimo prima del tragico momento. Per Alfio no, non fu così. Egli scorse tutta la sua vita futura: quello che sarebbe diventato, sua moglie, suo figlio, i suoi nipoti. Vide quel vuoto di cui aveva tanta paura pieno di fallimenti e risultati, dolori e gioie, amore e odio. Sentì le parole che non aveva mai detto. In quel momento era realmente vivo e capì di non avere mai vissuto, ma di essersi lasciato vivere. Oh, come avrebbe voluto tornare indietro di qualche secondo! Ora sapeva, gli era tutto chiaro. “Vita, mentre mi lasci per la prima volta, io ti vedo”. Pietro corse verso la cucina, era disperato, urlava come una iena, saltò oltre il divano e spalancò la porta. Alfio era come un figlio per lui, era il suo miglior amico, gli voleva bene, non poteva perderlo. Lo afferrò per le gambe e lo tirò su, su e ancora più su, fuori dal suo baratro. E piangeva e urlava:
«Per favore, aiutatemi! Alfio, no! Cosa hai fatto! Aiuto, aiuto, qualcuno mi aiuti! Cazzo, cazzo! Alfio, no!».
Quando Alfio rinvenne, vide un faccione sorridente: dagli occhi di Pietro spuntava una lacrima.
«I medici hanno detto che sei fuori pericolo. Ora devi startene tranquillo e riposare».
«Grazie, Pietro, grazie di cuore. Tu non sai cosa hai fatto: tu mi hai ridato la vita».
«Sì, però anche tu, cosa mi combini? Se avevi problemi potevi parlarmene, no? Dimmi, ti posso aiutare? Ti serve qualcosa?».
«Grazie, Pietro, ma ora ho compreso. Adesso ho tutto ciò che mi serve».